Radici

Radici

di Massimo Cappelli

settembre 2023

n sedici anni di NoiDiQua, in oltre centosessanta edizioni fra Quarrata Agliana e Montale, non ho mai parlato né di me né della mia famiglia, ad eccezione del numero di dicembre 2022 dove, al fine di sensibilizzare i lettori alla prevenzione ai tumori, ho raccontato una vicenda personale. Se ho scelto oggi di scrivere questa storia, l’ho fatto perché credo che il racconto coinvolga moltissime persone, in quanto le condizioni in cui hanno vissuto i miei antenati probabilmente è comune a alle memorie familiari di molti lettori.

«Gnamo ragazzi, gl’è tardi! Pia, Primetta, vu chiacchierahe pe’ la strada. E si partirà anco utimi, ma ‘gna partire! Montahe, su, se vu volehe he vi meni io. E ci ‘ole du’ ore e mezzo pe’ arri’a’ a Firenze e se do retta a voi si parte doman da sera. Gnamoooo! »

Mi immagino, che molte mattine dei primissimi anni del Novecento mio nonno, Fortunato Olimpio Cappelli, nato il 5 marzo 1880, si rivolgesse così ai suoi giovani clienti: studenti che frequentavano le scuole superiori nel capoluogo toscano e che tutte le mattine partivano di buon’ora con il legno, una carrozza chiusa, trainata da un cavallo, all’interno della quale potevano sedere otto persone, più una a cassetta vicino al conducente. Olimpio abitava a Quarrata, in località La Villa, nell’attuale Via Covona. All’epoca, non aveva ancora conosciuto mia nonna Elisa Giuntini, di Chicco, Montorio (dove adesso c’è l’Agriturismo Il Calesse) e viveva in casa con la mamma Leopolda e tre sorelle: le gemelle Carolina e Serafina, e Sestilia, tutte e tre maggiori a lui. L’albero genealogico riporta anche di un fratello, Angiolo, nato nel 1883, probabilmente morto venendo al mondo o comunque da molto piccolo. Olimpio aveva conosciuto la miseria più nera, dopo aver perso il padre Lorenzo all’età di sette anni. Per mandare avanti la baracca, essendo l’unico (si fa per dire) uomo di famiglia, la sua mamma gli trovò lavoro come garzone da un contadino. La paga era il pane assicurato tutti i giorni. Per il companatico bastava conoscere bene le erbe che crescono spontaneamente nei campi, bollirle in acqua e un po’ sale e ne veniva fuori una zuppa che era la delizia di quasi tutti i giorni.

Non si sa di cosa sia morto Lorenzo Cappelli; ci è dato sapere, però, che proveniva da Firenze. Nel certificato di matrimonio c’è scritto: “figlio dell’ospedale di Firenze – nato nel 1831”. Il cognome lo acquisì perché fu adottato da una famiglia della zona di Pontagliano/San Biagio. Prima di sposare la mia bisnonna Leopoda Paolieri nel 1877, nel ’72 era convolato a nozze con Serafina Forni, di Santallemura — possidente — come specifica il certificato di matrimonio, della quale rimase vedovo poco tempo dopo. Quanto voci tramandano, Lorenzo era molto legato alla sua Firenze, e da giovane, nei momenti di crisi, si rifugiava lì, proprio ai tempi del Risorgimento, rimanendo anche per periodi abbastanza lunghi nella allora capitale del Granducato di Toscana, che di lì a poco sarebbe diventata anche la capitale del Regno d’Italia fino al 1871.

Ma torniamo a una trentina di anni più avanti. Quarrata, allora come oggi, essendo un cul de sac, pertanto non adatta alla costruzione di vie di comunicazione, non era servita dalla ferrovia, quindi per coloro che non possedevano cavallo e calesse, l’unico modo per spostarsi era il Legno. Molti quarratini, pare quasi una decina, avevano scelto di fare il mestiere di vetturino; le tratte erano Firenze, Prato e Pistoia, ma anche collegamenti più brevi come Agliana e Montale.

Nonno Olimpio, che ci lasciò a novantatré anni nel 1973, ricordava spesso e con piacere le sue avventure di quegli anni. Raccontava che i ragazzi preferivano salire con lui perché potevano dormire qualche minuto di più, fatto molto apprezzato specialmente nelle mattine d’inverno fredde, nebbiose o piovose quando partiva sempre per ultimo e arrivava per primo. Il suo cavallo che lui chiamava Giorgio, pare fosse un fenomeno perché in solo due ore e mezzo di tragitto riusciva a recuperare più di un quarto d’ora sulle altre vetture che facevano la stessa tratta. Bastava che Olimpio accarezzasse con il frustino il deretano di Giorgio e lui a Olmi raggiungeva Mogaste, a Casini il Compiani, al Poggio a Caiano superava il Giuntini, a Sant’Angelo a Lecore superava il Gherardini (e così via anche perché non mi ricordo più i nomi); qualcun altro veniva superato a San Piero a Ponti, poi a Brozzi, fino ad arrivare, presumibilmente, in Piazza del Duomo. Il punto più critico pare fosse proprio al Poggio a Caiano perché i futuri dottori o le aspiranti maestrine dovevano scendere e percorrere a piedi sia la salita che la discesa. Magari i maschi più aitanti, per farsi notare dalle coetanee pulzelle, spingevano anche la vettura mettendo in evidenza i loro muscoli.

Cosa avrà fatto Olimpio nelle cinque o sei ore di attesa aspettando la fine delle lezioni? Sicuramente avrà consumato il suo pranzo a sacco, forse proprio lì, in Piazza del Duomo come nella foto in questo articolo, dove ci sono due carrozze parcheggiate — che sia lui? Mah, improbabile! Però mi piace pensarlo — sicuramente avrà ammirato i monumenti da fuori, perché non avrebbe mai lasciato cavallo e carrozza incustoditi. Lontana anche l’ipotesi che abbia letto il giornale o dei libri, perché era completamente analfabeta. Forse avrà dormito, o in quelle poche ore si sarà arrangiato a fare qualche tratta locale: a Coverciano, all’Impruneta, o a Pontassieve, là da dove pare provenga la nostra casata.

A causa della Grande Guerra gli fu confiscato il cavallo dal Regio Esercito, e al fronte ci andò anche lui; fortunatamente però tornò, altrimenti io non sarei qui a scrivere. Ricordo che verso la metà degli anni Sessanta fu decorato Cavaliere di Vittorio Veneto con tanto di medaglia e pergamena. Dopo la guerra si intese di andare avanti con il suo lavoro di vetturino e comprò un nuovo cavallo, ma senza il suo Giorgio non durò molto perché non aveva più il primato di partire per ultimo e arrivare per primo. Poi, dopo qualche anno arrivarono i primi torpedoni e il tramway che per capolinea aveva già il Comune di Signa fino al confine di Poggio a Caiano, e che grazie al notevole aumento dei passeggeri riuscì a fare biglietti più a buon mercato. Così pian piano sparirono anche gli altri vetturini. Il nonno, per tutto il resto della sua vita fino alla venerabile età di ottant’anni, ha fatto il bracciante agricolo, andando da chiunque lo chiamasse. In certi periodi in cui nei campi praticavano il divelto, ovvero lavoravano a fondo la terra rovesciandola e dissodandola prima della semina, Olimpio prestava opera per un mese di seguito da dei possidenti terrieri in Valdinievole, percorrendo, a piedi, la strada da Quarrata a La Colonna di Pieve a Nievole, alzandosi alle due di notte, lavorando tutto il giorno e rientrando intorno a mezzanotte.

Quando per fare un po’ di moto vado a camminare facendo cinque o sei chilometri penso a lui, e se potessi trovarlo al mio ritorno:

«O come mai tu se’ tutto sudaho?»

«Ho fatto sei chilometri a piedi nonno».

«Indoe avei da andare?!?»

«Da nessuna parte, ho fatto per camminare un po’».

«Mah… Tu se’ tanto bischero!».

Quando lui è mancato io avevo quindici anni, mi ricordo che da piccolo mi portava spesso con sé quando andava a chiacchierare con i vecchietti suoi amici. Il tempo e la vanga lo avevano un po’ ingobbito. Piccolo di statura, tuttavia, anche se anziano, camminava molto spedito:

«Vieni ti meno con mene, vo a compra’ i sigari all’appalto, a Silvione, da Filiberto. Però dammi la mana e sta’ attento alla strada, bisogna camminà dalla nostra parte, la manritta».

«Nonno perché hai le mani dure?» 

«Eh, ricordati: se tu voi che i’ mento balli, alle man ‘gna avecci i calli».

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