di Martina Notari
dicembre 2025
Il 17 novembre sono ricorsi vent’anni dalla morte del mio babbo, Marcello Notari.
Infermiere professionista, fisioterapista e ferrista in sala operatoria, per oltre trent’anni ha lavorato in sala operatoria al CTO di Firenze, accanto a grandi nomi dell’ortopedia italiana come Bufalini, Aglietti, Marchetti e Pescatori, con il quale ha poi collaborato anche negli studi medici della Misericordia di Poggio a Caiano. Come fisioterapista è stato punto di riferimento per molti pazienti del territorio quarratino, aglianese e pratese nel recupero della mobilità del corpo, compromessa da incidenti, traumi o malattie, ma soprattutto nella sua straordinaria capacità di portare umanità e calore in ogni gesto di cura. Era stato scelto come parte dell’equipe del CTO pronta ad andare a prestare servizio in Africa (erano gli anni ’80), ma una brutta epatite lo costrinse a letto per molti mesi e non lo fece avanzare in questa pagina della sua vita.
Io lo ricordo come il mio babbo dal sorriso buono, dalle mani forti e gentili, che mi ha insegnato ad amare il mare e la vita, a vedere la dignità nella fatica e la bellezza nel servire. Da buona giornalista però, ho voluto contattare due persone che nella loro vita hanno avuto un rapporto prezioso con lui perché potesse essere ricordato anche da parole non mie. Una di loro è Neda Parsa, medico e per me compagna di viaggi universitari verso Pisa, dove studiavamo lei Medicina, io Filosofia. Ecco le sue parole: Ho conosciuto il babbo di Martina all’inizio del mio percorso universitario in medicina. In un periodo pieno di incertezze, lui è stato per me un faro. Parlava del suo lavoro con una luce negli occhi, ricordandomi che tutto ciò che studiavamo aveva un solo scopo: aiutare le persone. Quando preparavo l’esame di anatomia – una delle prove più difficili e temute dei primi anni – ricordo come mi prendeva bonariamente in giro, ridendo, dicendo che lui l’anatomia la conosceva davvero, perché la vedeva ogni giorno, dal vivo, sui tavoli operatori. Quelle sue parole, dette con leggerezza e affetto, mi hanno fatto capire che dietro ai nomi e ai dettagli dei libri c’era la vita vera, concreta, dei corpi che lui aiutava a guarire. Grazie a lui ho imparato a guardare la medicina non solo come scienza, ma come atto di amore. Per lui il lavoro era una forma di servizio, una preghiera quotidiana. E lo faceva con una dedizione profonda, ma anche con una leggerezza umana che lo rendeva unico: trovava sempre il tempo per la famiglia, per gli amici, per un consiglio, un sorriso, una parola gentile. Mi ha insegnato che la salute è la base di ogni sogno umano. Grazie a lui ho imparato a vedere la medicina come un atto d’amore, un servizio.
Un’altra testimonianza è quella di Susi Bonacchi, una sua storica paziente: Ho conosciuto Marcello in un momento molto difficile della mia vita, quando l’ho visto per la prima volta ci siamo capiti subito e insieme abbiamo incominciato un cammino che è durato anni. Grazie a lui ho ripreso la mia vita ed è grazie a lui se cammino, se mi muovo, perché senza di lui io non avrei camminato più. Era un uomo buono, pronto a sacrificarsi pur di risolvere un problema. Averlo incontrato è stato quasi un miracolo, gli vorrò sempre bene.
Raccogliere queste parole, a distanza di vent’anni, mi fa capire quanto mio padre abbia lasciato un segno profondo. Non solo come professionista, ma come uomo capace di trasmettere fiducia, forza e gentilezza a chi lo incontrava.



