Racconto assurdo di un pomeriggio surreale

Racconto assurdo di un pomeriggio surreale

di Carlo Rossetti

giugno 2019

 

(Prendendo spunto da un fatto realmente accaduto, i personaggi e le circostanze del racconto sono immaginari e frutto della fantasia dell’autore)

Un pomeriggio qualunque d’estate, come tanti. E’ un sabato alla fine di luglio e agosto è già pronto a subentrare per la prosecuzione dell’anno e far felici quanti lo aspettano per le ferie. Le cicale come al solito, dopo avere rotto i c……i per tutto il giorno, non danno segno di “ritirarsi nelle loro stanze” per il meritato riposo, intente come sono a concedere bis. Il loro frinire monotono eseguito su una corda sola, se considerato da un punto di vista musicale, si confonde e si impasta con i numerosi rumori delle macchine che sfrecciano con disinvoltura per le vie quarratine. Rumore e polveri sottili sono quanto di meglio si possa desiderare, o forse no… 

Io mi accingo a salire le scale che mi conducono in soffitta, sostenendo con la mano sinistra un piccolo tubo di ferro, mentre con la destra mi tengo ancorato al corrimano. A un tratto, senza rendermi conto del perché, comincio a ruzzolare con la testa a prua e le gambe a poppa, fermandomi a fine scala sul pianerottolo d’ingresso, dopo circa otto – dieci scalini.

Lì per lì non sento di avere riportato gravi danni, ma appena arrivano l’ambulanza e il 118, prontamente chiamati da casa, comincia una lunga operazione di recupero. Cercano di aprire la porta da cui si accede al pianerottolo, ma questa s’apre soltanto una ventina di centimetri a causa del mio corpo che fa da contrasto. Inizia il dialogo tra me e i soccorritori. Mi chiedono nome e cognome per capire se ho perso conoscenza e io rispondo fornendo tutte le generalità possibili. Intanto si cerca di far forza sulla porta per ottenere un varco dal quale farmi passare anche di traverso. Passa il tempo e tutto è inutile. Voci intorno a me sempre più concitate e nuovamente richiesta da parte loro di dati e generalità. Nella confusione indico il nome giusto e per sbaglio il cognome da “maritato.”Al ché il medico si insospettisce e mi fa ripetere. La risposta è precisa e circostanziata. «Ha dolori? Sente di poter reggere?» Dice il dottore. «Sì, per ora non ho particolari problemi». «Bene», fa lui. In quel momento, l’unico pensiero è quello che la sera non avrei potuto vedere alla televisione “C’è posta per te”, con Maria De Filippi, che fa tanto piangere. E piangere fa bene, dicono i medici. Intanto fuori l’amico Mirko capo squadra alla guida dell’ambulanza è costretto a rispondere a ogni passante su quanto è accaduto. Una, due, tre volte, poi si stanca e va a fumare una sigaretta in mezzo alla piazza, in maniera da tenere in vista la mia porta d’ingresso per capire gli sviluppi. Purtroppo anche lì, individuato dall’uniforme di volontario, viene preso d’assalto da alcuni curiosi. All’ennesima domanda rivoltagli, non avendo voglia di rievocare la storia, risponde con un laconico: «Mi dispiace, ma non sono del posto». E per evitare altre scocciature, va a rifugiarsi dietro l’angolo del comune, dal quale ogni tanto si affaccia. Per uno che non sa niente, sembra faccia a rimpiattino. 

Passa il tempo, ma per il momento non c’è modo di tirarmi fuori, perché per una serie di circostanze non è facile abbattere la porta. A questo punto c’è solo la possibilità di chiamare i Vigili del Fuoco, gli unici, come in molteplici occasioni, a essere in grado di “levare le castagne dal fuoco”. Perciò una telefonata e poco dopo arrivano cinque baldi giovani a bordo dell’autocarro con cisterna. Via Roma appare ora come il teatro di un grosso incendio. Dopo poco, grazie all’intervento dei pompieri, posso uscire dall’angusto angolo dove ero finito. Dal momento della caduta a quello dell’arrivo in ambulanza, è passata circa un’ora e mezza.

Mirko intanto, dopo avere preso parte alle operazioni di carico del ferito, controllato la perfetta chiusura del portellone posteriore, si avvia verso la cabina di guida. Prima però dà uno sguardo allo specchio retrovisore, si ravvia i capelli, e dopo essersi rimesso in sesto la camicia e la divisa, sale. E via alla volta dell’Ospedale di Pistoia. Mirko avrebbe voglia di usare la sirena tanto per fare scena ed essere in sintonia con le operazioni di recupero così complesse, che lasciano pensare a un ferito di una certa gravità. Gli basterebbe uno “strombazzamento” limitato al passaggio nelle vie cittadine, ma Mirko resiste e non lo fa. E non avrebbe avuto tutti i torti se alcuni curiosi seduti fin dal primo momento sotto l’albero di piazza del Comune, commentano delusi: «Sarà anche ferito quello lì, ma son partiti come andare a una gita. Si vede che dev’essere un raccomandato per avere tutta quella gente d’intorno». Mentre stiamo salendo la Màgia, a causa della mia posizione che non mi permette di andare nel senso di marcia, avverto che lo stomaco dà segni di insofferenza. Chiamo l’assistente di bordo e gli riferisco quello che mi sta succedendo. Aggiungo che potrò reggere ancora per qualche chilometro, poi ci sarà la resa dei conti, o meglio la restituzione del pranzo. Lui si mette in contatto con Mirko attraverso l’oblò interno, al quale riferisce quanto mi accade. Lui scuote la testa e mentre si ferma fa: «Il lettino non si può girare a causa degli incastri, il ferito nemmeno perché va giù con la testa». Poi d’un tratto: «Ho trovato la soluzione!» Fatta la discesa, affronta la rotonda che percorre per intero, dirigendosi nuovamente verso Quarrata. Quindi si ferma, accende i lampeggianti e innesta la retromarcia per consentirmi di avere una posizione che risponda alle mie istanze gastriche. E così, all’indietro, ci si dirige verso Pistoia. 

Comincia qui un percorso che ha del soprannaturale. Mirko guida lentamente muovendo ritmicamente la testa da destra a sinistra, per controllare la direzione attraverso gli specchi retrovisori. L’assistente di bordo intanto attraverso il vetro posteriore, fornisce utili informazioni per mantenere la direzione. Momentaneamente ha smesso i panni istituzionali per diventare “il navigatore”. Nello stato di torpore in cui mi vengo ora a trovare, cullato dal tran- tran del mezzo e dalla botta che ora fa l’effetto di una sbornia, avverto ogni tanto frasi come: «Mirko, attenzione, vai a destra, si sta per andare in fossa! Ferma, siamo sull’erba! Frena, frena! Te ne sei accorto della bicicletta?»

Il telefono suona ed è l’Ospedale di Pistoia che vuole avere notizie, essendo stato avvertito da più di due ore del nostro arrivo. Notizie rassicuranti ripartono dal nostro equipaggio che fanno capire che meglio di così non potrebbe andare, ma in realtà non è più possibile nascondere le ragioni del nostro ritardo. Qualcuno all’Ospedale, saputo questo, pensa che sarebbe stato meglio avermi portato con il Copit.

Ormai all’imbrunire, nonostante le indicazioni del “Navigatore”, non si sa come, ci ritroviamo in un vivaio nei pressi di Canapale. «E ora?» dice Mirko e scende insieme al compagno. A quel punto una telefonata all’Ospedale sottolinea l’ulteriore perdita di tempo. «State tranquilli, vi porteremo il ferito come vi abbiamo promesso, o questo o un altro», tanto per non sapere più cos’altro dire. 

E mentre i miei accompagnatori stanno studiando il da farsi, vedono il lume di una bicicletta venire verso di loro. Appena il mezzo è vicino a noi, fermano il ciclista e gli fanno presente la situazione, il fatto di avere smarrito la strada e la necessità di portare un ferito a Pistoia. 

«E’ grave?» dice l’uomo. «Fortunatamente no, è la risposta». Il signore intanto si offre di farci strada, precisando che altrimenti non saremmo riusciti a cavarcela in quel labirinto di stradine. Lui avanti con la bicicletta e noi dietro. Mirko osserva che così avremmo impiegato molto tempo e allora propone al signore di salire a bordo con lui, mentre la bicicletta avrebbe trovato posto all’interno. «Ti dispiace Carlo se insieme a te mettiamo una bicicletta?» «No, assolutamente, anzi…mi piace il ciclismo».

E così ripartiamo. Naturalmente il signore, percorsa un po’ di strada, rivolge a Mirko un’inevitabile domanda: «Perché andiamo all’indietro?» Mirko che non aveva più voglia di spiegare le ragioni dell’inusuale marcia, risponde semplicemente che quella è un’ambulanza dotata della sola marcia indietro che viene usata in particolari occasioni, specie quando c’è da trasportare persone con problemi non gravi. «Ah!», risponde con poca convinzione il ciclista. Dopo otto o dieci minuti lo stesso ci avverte che siamo nuovamente sulla strada principale. Chiede di essere sceso lì, ma Mirko dopo aver saputo che avrebbe dovuto fare ancora tre chilometri per essere a casa, magnanimo e riconoscente com’è, si offre di accompagnarlo, tanto tardi per tardi… «Carlo, sei d’accordo?», mi dice alzando la voce. «Vai, vai, io qui sto di lusso»

Arrivati a destinazione, scesi l’uomo e la bicicletta, vi è da ambo le parti un tripudio di ringraziamenti e strette di mano. «Grazie, la ringrazio tanto, è stato veramente gentile». «Non c’è di che, ci mancherebbe». «Se passa da Quarrata ci venga a trovare». «Senz’altro, buonanotte». «Buonanotte e grazie di nuovo». Ci sarebbe mancato di aggiungere: «Se viene le faremo fare un giro in ambulanza». Quindi si riparte risucchiati dal buio.

Finalmente, mentre in televisione va in onda il telegiornale della notte, l’autoambulanza arriva sul piazzale del Pronto Soccorso. Appena fuori dall’ingresso, una decina, tra medici e personale infermieristico, sono in attesa da ore.

Mirko, cautamente, si ferma almeno a dieci metri da loro. Scende lentamente immaginando quale sia la reazione che potrebbe subire. La prima cosa che fa è quella di reggersi la testa, che ormai gli si muove da destra a sinistra senza soluzione di continuità. E’ stanco, visibilmente spossato come avesse partorito da poco, il volto imperlato di sudore per una prova che mai avrebbe immaginato di sostenere. Pensa a cosa dire a propria difesa, mentre un’accelerazione cardiaca gli rende sempre più difficile la concentrazione e la respirazione. Si fa avanti e appena è a pochi passi dalla barriera dei medici e infermieri, un fragoroso applauso si leva nei suoi confronti. Pure qualche «bravo» e «ganzo» partono dalle voci femminili delle retrovie. Mirko a quel punto è maggiormente disorientato. Dopo essersi preparato mentalmente al rimprovero, non riesce ad apprezzare la calorosa accoglienza e a far risalire emotivamente il suo stato d’animo. Si avvicina e mentre un medico gli tende la mano, seguito poi da altri, confuso e smarrito sa solo dire: «Io, più di così…» e non aggiunge altro. Quindi sparisce velocemente. Di lì a poco un grido che non ha dell’umano, rompe il silenzio della sera. E’ Mirko che nell’oscurità cerca di scaricare tutta la tensione accumulata nel pomeriggio, mutuando il gesto dal Rag. Fantozzi. Intanto il compagno all’interno dell’ambulanza, mentre sgancia il lettino per scendermi, mi dice: «Bravissimo Mirko! è uno dei nostri migliori autisti. Pochi sanno che ha fatto un corso di guida a Maranello su ambulanze “truccate”. E’ il nostro fiore all’occhiello. Sa quanta gente abbiamo salvato con lui al volante». Pausa. «Meno male che lei non si è ferito gravemente, altrimenti ora avremmo consegnato un morto».

“Queste parole sono per me un toccasana”. Lui non immagina nemmeno quanto mi facciano bene. Grazie, grazie davvero, gli dico. E mentre vado incontro al mio destino, mi pare di avvertire sguardi di rimprovero per l’ora in cui mi sono presentato. Allora chiudo gli occhi e cerco con una mano di raggiungere la zona pubica per gli scongiuri del caso. Visto l’andazzo, non si sa mai.

Fantasia a parte, ringrazio a posteriori “Mirko”, il suo assistente di bordo, il Medico del 118 e la Squadra dei Vigili del Fuoco di Pistoia, senza i quali ora sarei, probabilmente, solo un nome su un’epigrafe di marmo.

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