Arti e mestieri che se ne vanno – il “Giancarlo Zampini” pensiero

Arti e mestieri che se ne vanno – il “Giancarlo Zampini” pensiero

di Massimo Cappelli. Foto: Adriano Tesi, Riccardo Boccardi e Gabriele Bellini

marzo 2024

“[…] Tanta nostalgia, anche per coloro che costruivano e riparavano le botti, i carrai che facevano le ruote dei barrocci, i fabbri che prendevano i carboni ardenti e battevano il ferro per fare attrezzi: vanghe, zappe, pennati. Questa è nostalgia, ma si perdono mestieri anche più attuali e se non si pone rimedio, presto sarà difficile trovare un falegname o un tappezziere; la scuola non prepara ad intraprendere questa via, l’ambizione dei genitori è quella di vedere i propri figli impiegati da qualche parte, possibilmente in una grande azienda, in banca, presso uffici pubblici, basta che non indossino la tuta […]”

Questo lo scriveva il nostro Giancarlo Zampini in un NoiDiQua del 2010, raccontando di una rievocazione della “battitura del grano” organizzata dal Club Trattori d’Epoca, al Frantoio PAM a Campiglio di Quarrata. Il pezzo aveva per titolo “Arti e Mestieri che se ne vanno” e Giancarlo, tra nostalgia e rammarico, portava in evidenza il fatto dei vecchi mestieri (in verità anche non troppo vecchi) che scompaiono. Dopo quattordici anni il mondo ha fatto passi da gigante con la tecnologia, sono nate la realtà aumentata, l’intelligenza artificiale, si utilizzano droni per svariati servizi (anche in guerra per uccidere, ahimè) e siamo anche a un buon punto con le auto senza conducente; ma purtroppo stanno scomparendo gli artigiani: i fabbri, i falegnami, i tappezzieri, i tessitori, gli imbianchini, i muratori. Se non corriamo ai ripari fra qualche anno non ci sarà davvero più chi realizza prodotti di artigianato come un divano in capitonné, un armadio su misura o una ringhiera in ferro battuto.

Dovrebbe essere la politica a risolvere questo problema, istituendo scuole professionali in grado di formare giovani talenti, non solo nelle aule, ma soprattutto nelle fabbriche con l’aiuto dei pochi, preziosi artigiani rimasti, ormai anziani, ma ancora lucidi e attivi. Ma se gli italiani non vogliono saperne di fare i lavori manuali ci sono tantissime persone appartenenti ad altre comunità, provenienti dall’Europa dell’Est, che si sono già affermati in questi lavori da noi snobbati, soprattutto nell’edilizia. Sono venuti in Italia negli anni Novanta, giovanissimi, e dopo aver imparato il mestiere si sono messi in proprio, e con determinazione e voglia di lavorare, oggi, facendo rete fra loro, sono in grado di aggiudicarsi commesse molto importanti e stanno conquistando ottimi risultati.

Ma perché è successo questo?

Molto probabilmente tutto questo è stato causato da un pensiero comune che ha portato ad un condiviso comportamento di massa. Come spiegava Giancarlo già nel 2010, l’ambizione dei genitori è quella di vedere i propri figli impiegati nei lavori meno stancanti e logoranti, possibilmente in una grande azienda, in banca, presso uffici pubblici, basta che non indossino una tuta. Ognuno per i figli vorrebbe una vita migliore della propria, ogni padre che ha lavorato in fabbrica fin da ragazzo è disposto ad ogni ulteriore sacrificio pur di vedere suo figlio laureato. Questo ha prodotto una grande abbondanza di avvocati, di ingegneri, per non parlare di laureati in scienze politiche. Ma abbiamo carenza di idraulici, per esempio, e trovare un elettrauto o un meccanico sarà sempre più difficile. Se andiamo avanti di questo passo, fra qualche anno, cambiare il galleggiante allo sciacquone del bagno costerà più di un intervento di chirurgia plastica. Per molti avere scritto sulla carta di identità “professione operaio” è considerato una bassezza. Se nell’immediato dopoguerra le masse proletarie chiedevano “pane e lavoro”, dopo settantacinque anni chi indossa una tuta o uno spolverino pare abbia un lavoro di serie B e certamente è venuto meno il senso di appartenenza alla classe operaia.

Cosa è possibile fare adesso?

Non essendo io né uno stratega né tantomeno un sociologo non credo di avere la risposta. Credo però che dovrebbero essere i nostri politici a porsi domande su questo fenomeno sociale, e invece di dirci costantemente ciò che vogliamo sentirci dire solo per acquisire consensi immediati e far crescere il loro gradimento, dovrebbero guardare venti anni avanti, studiare soluzioni, formulare disegni e pianificare interventi risolutivi. Anche con il rischio di essere impopolari. Invece di usare il marketing solo durante le elezioni, dovrebbero mettere in atto piani strategici per sensibilizzare i giovani e indirizzarli verso queste professioni a rischio di estinzione, cercando di generare in loro la voglia di intraprenderle.

Qualche notte fa mi è apparso in sogno Giancarlo Zampini, lo storico direttore e co-fondatore di questa rivista insieme a me. Invece di essere vestito “da giornalista” come lo rappresenta l’immagine rimasta di lui, con gilet multi tasche, occhiali da sole e l’inseparabile macchina fotografica, era vestito da lavoro e indossava una tuta da muratore. Nel sogno mi ha spiegato come lui avrebbe pensato di rivalutare questi mestieri che se ne stanno andando. Innanzitutto, secondo lui, si dovrebbe intervenire sul piano economico, con un’offerta adeguata al rischio e alla fatica, un salario proporzionato, equo, magari sorprendente, inatteso. Per coinvolgere e mobilitare i giovani si dovrebbe istituire una strategia mirata e una formazione sul campo in accordo con il Governo, il Ministero dell’Istruzione e le associazioni di categoria, insegnando loro soprattutto la pratica, senza tralasciare ovviamente la teoria e l’istruzione che sono una componente fondamentale. Le lezioni dovrebbero essere svolte proprio nei cantieri, nelle fabbriche e nei laboratori dalle maestranze più eccellenti. Alla fine dei corsi dovrebbero essere rilasciati dei prestigiosi attestati, veri e propri diplomi di laurea che possano spalancare sì le porte del lavoro, ma soprattutto che possano elevare e nobilitare il lavoro stesso. Contestualmente alla formazione, bisognerebbe agire sul piano del costume e del pensiero collettivo, con strumenti culturali e raffinate tecniche di comunicazione che possano far apparire queste professioni in contesti narrativi cinematografici o televisivi, in spettacoli teatrali, romanzi, canzoni o altro. Se ce l’abbiamo fatta con la categoria dei cuochi, perché non dovremmo farcela con gli agricoltori, per esempio, o con i falegnami? Non ho dati alla mano e non ho voglia di cercarli, ma sono convinto che, a forza di mandare in onda per anni talent show e programmi di cucina, siano molto cresciute le iscrizioni agli istituti alberghieri. Giancarlo mi ha fatto un altro esempio che potrebbe essere non troppo simpatico per l’Arma dei Carabinieri: qualche anno fa vennero di moda le barzellette (appunto) sui Carabinieri e la cosa non giovò di certo al nostro Corpo militare nazionale facendolo un po’ decadere sul piano dell’immagine.

A distanza di anni cosa è che ha ispirato e motivato molti ragazzi a fare carriera nell’Arma? Sicuramente l’orgoglio di appartenere ad un grande Corpo militare che esiste da quasi duecento anni, ma di certo la spinta è avvenuta anche grazie a romanzi, film e fiction televisive che hanno raccontato le gesta di comandanti, marescialli, storie di caserme, intrecci e racconti, che hanno avuto i Carabinieri come protagonisti. Anche questa, sempre a detta di Giancarlo si intende, potrebbe essere una strada da percorrere per restituire la dignità perduta… ai mestieri che si fanno con la tuta! E ci ho fatto anche la rima.

A parte il pensiero “dello Zampini”. Voi cosa ne pensate?

 

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