Danilo Caramelli – un quarratino al fronte

Danilo Caramelli – un quarratino al fronte

di Marco Bagnoli

settembre 2011

Danilo ci guarda negli occhi e ci racconta la sua vita. È nato il 2 maggio del ’20, a Vignole. Ancora bambino è venuto a stare alla Ferruccia, dove ha fatto il biciclettaio, lo stesso mestiere che porta avanti qua agli Olmi, dagli undici anni fino ai diciassette; è un lavoro artigianale, tutt’altra cosa rispetto a quello del concessionario, che le biciclette la Bianchi gliele manda direttamente da Milano. Il 2 gennaio del 1940, a diciannove anni, Danilo parte per Bologna per il servizio militare; il 10 giugno l’Italia dichiarerà guerra a Francia e Gran Bretagna. Il suo gruppo prosegue l’addestramento a Sidi el Barrani, nella Libia cirenaica, dove gli italiani hanno il vecchio equipaggiamento del ’15, solo il casco, come lo chiama Danilo, era diverso.

Danilo è addetto alla fotoelettrica, una specie di faro della contraerea, che illumina gli aerei nemici, ma ti rende a tua volta un bersaglio visibile – una roba pericolosa, insomma, ma è la guerra e in guerra si muore, quindi finché hai paura vuol dire che sei ancora vivo. Dopo circa diciotto mesi, l’insediamento italiano viene preso dagli inglesi e i prigionieri portati in Egitto, passando per il deserto – prima sugli stessi mezzi italiani, quindi direttamente a piedi. Staranno sei mesi in Egitto, con un capitano burbero più del dovuto, sembra per via della moglie, rimasta uccisa nei bombardamenti tedeschi su Londra. Ad Alessandria ci sono pure gli Australiani, una delle tante forze del Commonwealth; per fortuna: è l’occasione per cercare di rimediare qualcos’altro da mangiare e così gli italiani si presentano al porto e scaricano queste navi che vengono dall’altra parte del mondo – manco a farlo apposta trasportano lastre di eternit, ma la fame sembra ben più dannosa alla salute.

Poi da Suez i prigionieri vengono imbarcati su di un mercantile olandese, il New Amsterdam: sul porto li attende una sonora grandinata, quella del contingente scozzese di scorta al convoglio, che li bastona col calcio dei fucili dai lati della passerella; il comandante è il solo a scandalizzarsi, anche perché è l’unico civile. Nel canale ci restano un mesetto, per via di tutte quelle mine, ma finalmente raggiungono Durban. Qui gli vengono tagliati i capelli, sono spogliati dei loro stracci ed inviati alle docce per lavarsi: dei campi tedeschi ancora non se ne sa niente altrimenti col cavolo che ci sarebbero entrati. Ad attenderli all’uscita ci sono le divise degli inglesi, le stesse dei soldati, soltanto contrassegnate da una toppa cucita sopra. Questi uomini con sopra il marchio sono fatti salire sopra un treno merci – meglio –  caricati in un carro bestiame, chiusi dentro e spediti giù per un altro mesetto di viaggio, fino a Pretoria. Il vagone non si apre mai, il mangiare arriva qualche giorno si a qualcun’altro no, però il bidone che fa da latrina è sempre a disposizione in mezzo a loro. La loro destinazione si chiama Zonderwater, il campo nel quale saranno condotti prigionieri oltre centomila soldati italiani; una città con 24 miglia di strade. Qui si continua a rubare la sopravvivenza ad un altro giorno. Cercare di fregarsi qualcosa da mangiare dal mucchio delle bucce di patate è un lavoro rischioso, perché dalle garitte ai quattro angoli sparano senza tanti complimenti e allora bisogna giocare a nascondino col solito faro, che gira e gira e illumina come può la sua parte di notte.

Per tenere a distanza il più possibile quella maledetta vitaccia Danilo insiste come può per un posto nelle cucine, dove i favori comunque si pagano, ma almeno si possono fare degli scambi per un po’ di carne. Nel Sudafrica i bianchi che scavano diamanti abitano le loro villette di signori e capita spesso che cerchino gente per dei lavori: a Danilo, che sarebbe meccanico, qualcuno suggerisce di dirsi giardiniere, perché è un mestiere che ti rende utile a qualche cosa, con tutti questi giardini vittoriani che ci sono in giro – la stessa cosa viene detta ai prigionieri dei tedeschi, solo che nei loro campi non ci cresce molta erba. E Danilo s’inventa giardiniere, cincischiando con le erbacce, tagliuzzando un po’ qua e là, finché un altro italiano suo compagno, si mette nei guai con la figlia del padrone e vengono cacciati tutti e due.

L’8 settembre li sorprende a Pretoria, la guerra è finita; ma fino al febbraio dopo di tornarsene a casa ancora non se ne parla. Raggiungono Napoli nel ’46. Roma. Alla stazione di Pistoia ci sono rimasti solo i binari. Arrivati ai Casini la sensazione di estraneità si è oramai infilata nelle ossa – tutta la zona è stata pesantemente minata e non si capisce più chi o che cosa si dovrebbe riconoscere. Danilo si sposa a 31 anni, nel ’51, con Ersilia, rimette in piedi le sue biciclette, ancora con Nilo, suo fratello; poi passa ai motorini, per non vedersi scavalcato dal “progresso” come il su’ babbo, che faceva il vetturino e poi dovette vendersi i cavalli.

Nasce Perla, la loro unica figlia e nel 1960 Danilo apre l’autolavaggio, forse il primo di Quarrata, che fino agli anni novanta farà la fila per la strada. Perla sposa Riccardo e arriva Irene. Ersilia si scopre attrice con la Loggetta, per vent’anni di fila. E quest’anno è nato Alberto, Danilo è bis-nonno e una nostalgia dell’Africa, che ancora fiammeggia all’orizzonte, sembra raccontargli i suoi anni migliori.

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