Canapa e derivati: cosa si può e cosa non si può

Canapa e derivati: cosa si può e cosa non si può

di Serena Michelozzi

dicembre 2019

Il consumo delle droghe leggere e non, soprattutto da parte dei giovani, è uno dei temi più discussi già a partire dalla metà del secolo scorso. Senza cadere nella banalità delle solite raccomandazioni – con le quali però concordo – tese a disincentivare e vietare l’uso delle predette sostanze, è anche utile sapere di che elementi psicotropi si tratta, da cosa sono composti e, se sono concessi, in che limiti, soprattutto nel caso delle droghe leggere. 

Purtroppo la società italiana vive quest’argomento come un vero e proprio tabù, soprattutto per la mancanza di informazione, e molte persone prendono una posizione proibizionista senza alcun tipo di riflessione e/o conoscenza approfondita sull’argomento. Basti pensare che la canapa indiana, dalla quale si produce la marijuana e l’hashish, è stata per secoli impiegata in vari settori, da quello tessile a quello della carta, fino alla medicina. Alcuni scienziati hanno addirittura dimostrato come la suddetta pianta possa essere utilizzata come fonte di energia rinnovabile, e altri ancora l’hanno utilizzata con successo per lenire la sofferenza nei malati terminali, sfruttando le sue proprietà terapeutiche. 

Forse è proprio per la scoperta di queste proprietà non del tutto negative, che nel 2016 è stata emanata la Legge n. 242 recante “Disposizioni per la promozione della coltivazione e della filiera agroindustriale della canapa”, la cui finalità è quella di incentivare e di sostenere la coltivazione della canapa in vista dei suoi molteplici utilizzi in ambito agro-industriale, senza, quindi, alimentare il mercato illecito finalizzato al consumo personale di quella sostanza, la quale contiene un principio attivo che, se superiore a un determinato dosaggio, provoca effetti stupefacenti e psicotropi, con conseguente configurabilità dell’indicato delitto previsto dal D.P.R. n. 309 del 1990, art. 73. Pertanto, anche in base a quanto affermato dalla sentenza della Suprema Corte di Cassazione del 20 febbraio 2019, n.7649, se rispettati determinati presupposti indicati nella legge (tra cui: “la percentuale di THC presente nella canapa non deve essere superiore allo 0,2%”), è quindi possibile, quale logico corollario, non solo coltivare la canapa, ma anche commercializzare i prodotti da essa derivati. In altre parole per il commerciante di prodotti a base di canapa può configurarsi il reato di cui al D.P.R. n. 309 del 1990, art. 73, comma 4, solo se la percentuale di THC rinvenuta nei prodotti è tale da provocare un effetto stupefacente o psicotropo. Qualora il livello di THC – elemento responsabile dello “sballo”, per intenderci – non superi lo 0,2%, si parla di cannabis light, ovvero la canapa che ha un bassissimo principio attivo ed elevato valore di CBD (il cannabinoide che ha invece effetti puramente rilassanti). 

Recentemente (maggio 2019) è però intervenuta una pronuncia contraria della Corte Suprema di Cassazione a Sezioni Unite di senso decisamente contrario rispetto a quella precedente, che ha posto uno stop ai punti vendita di cannabis light. Secondo quest’ultima pronuncia: “la commercializzazione sativa e in particolare di foglie, inflorescenze, olio, resina, ottenuti dalla coltivazione diretta della cannabis, non rientra nell’ambito di applicazione della legge 242 del 2016, che qualifica come lecita unicamente l’attività di coltivazione di canapa delle varietà iscritte nel catalogo comune delle specie di piante agricole, ai sensi dell’art. 17 della direttiva 2002/53 CE del Consiglio del 13 giugno del 2002, che elenca tassativamente i derivati dalla predetta coltivazione che possono essere commercializzati”. Pertanto: “integrano reato le condotte di vendita e, in genere, la commercializzazione al pubblico, a qualsiasi titolo, dei prodotti derivati dalla coltivazione della “cannabis sativa L.”, salvo che tali prodotti siano in concreto privi di efficacia drogante”. Saranno dunque i giudici di merito, di volta in volta, a valutare quale sia la soglia di “efficacia drogante” che rientra nei “parametri” del consentito.

Insomma, come ben si può evincere anche dal sovraesposto excursus normativo-giurisprudenziale, in Italia l’argomento delle droghe leggere, nella specie quello del consumo e della commercializzazione della Cannabis Light, è ancora molto ondivago ed incerto. Tuttavia, a prescindere da quelle che saranno le decisioni provenienti “dall’alto”, è importante che l’argomento in Italia non sia più un tabù e che la società (nel caso di specie soprattutto i giovani) sia ben informata ed abbia consapevolezza di quello che viene prodotto e poi, forse, consumato (proprietà chimiche e/o naturali, composizione, lavorazione, ecc), in modo che possano scegliere con criterio e cognizione di causa se l’uso di tali sostanze “light” sia un bene o, forse, più un male.

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