Orlando Gai – il sellaio

Orlando Gai – il sellaio

di Carlo Rossetti

dicembre 2017

Orlando Gai faceva il sellaio. Intorno alla sua bottega posta all’imbocco di Via del Littorio, ora Via Montalbano, poi successivamente trasferita in piazza Risorgimento (in origine intitolata a Umberto 1°) ruotava il mondo rurale di allora, i cui personaggi caratteristici avrebbero ispirato la vena narrativa di un Fucini. Era di corporatura robusta e portava in testa un piccolo berrettino che lui stesso chiamava “Il Brilliperi”, omaggio all’omonimo corridore automobilista. La “trippa alla zuava” evidenziava l’ombelico grassoccio, per l’impossibilità della camiciola di congiungersi ai calzoni, così che quest’ultimo attributo poteva essere definito a “faccia vista”. Da qui l’appellativo di trippone che anche i familiari usavano affettuosamente nel rivolgerglisi. Solitamente allegro, era di una simpatia unica; mole e carattere finivano per fondersi perfettamente. La sua bocca, da sempre “orfana di parecchi denti”, lo costringeva a pronunciare “a gengiva”, per cui la dizione non era di prim’ordine, ma non per questo era meno gradevole starlo a sentire. Così le storie che amava raccontare, legate soprattutto al mondo contadino che solitamente frequentava, diventavano dei veri e propri bozzetti.

Se il suo lavoro di sellaio lo aveva fatto stimare un po’ dappertutto, in quanto tra la sua clientela più affezionata e qualificata poteva vantare tutte le fattorie della zona, non era meno conosciuto per la mansione di provveditore della Banda Comunale, che nel tempo libero svolgeva a partire dalla ricostituzione del corpo, a guerra finita e della quale faceva parte anche il figlio Vinicio.

Nessuno allora avrebbe immaginato che Vinicio dedicandosi a tempo pieno alla musica, sarebbe diventato un giorno uno dei maggiori organologi e musicologi di fama mondiale. Il compito di Orlando era quello di convocare i musicanti, fare erigere il palco per i servizi, acquistare e far riparare gli strumenti. Altra mansione, in occasione di prove o concerti, era quella di dare da bere ai musicanti durante le pause fra un brano e l’altro. Ovviamente con del buon vino. E anche in questo caso Orlando espletava il suo compito in maniera mirabile.

Ma la cosa che poteva maggiormente mettere in risalto le sue doti, era il pranzo che preparava per la festa di Santa Cecilia, o dopo qualche brillante trasferta. Destreggiandosi fra teglie, pentole e tegami, facendo uso di frattaglie donate da qualche macellaio del luogo, riusciva sempre a preparare una pastasciutta da leccarsi i baffi; quindi un secondo sempre in umido, poi Pan di Spagna e «vermutte veramente bono» di una fattoria di Lamporecchio. Il tutto facendo un uso sporadico delle posate. Ecco spiegato perché le sue mani, di color ruggine all’inizio per via dell’antico sodalizio con il cuoio, apparissero al momento di servire in tavola, bianche e deterse come fossero state lavate con “Olà”.

Foto inizio articolo: Orlando Gai. Foto sopra: Vinicio Gai

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