Una voce russa da Kiev

Una voce russa da Kiev

di Giacomo Bini

marzo 2022

In questo momento segnato dalla guerra in Ucraina, le parole sono troppe, come quelle del fiume di analisi e commenti da cui siamo sommersi ogni giorno, e al contempo sono troppo poche, perché non bastano ad approssimarsi all’orrore. Per questo vogliamo lasciare la parola ad uno scrittore russo di lingua e ucraino di nascita e formazione, Michail Bulgakov, l’autore del famosissimo e splendido “Il maestro e Margherita”. Bulgakov si laureò in medicina all’Università di Kiev e poi visse a lungo a Mosca e in altre città russe, ma si trovava nella sua città natale durante la terribile guerra civile del 1918-19, successiva alla presa del potere dei bolscevichi in Russia. 

Di quella guerra racconta nel suo romanzo “La guardia bianca” in pagine che, rilette oggi, appaiono di straordinaria attualità, piene di affetto per Kiev, che lui chiama la Città con la “C” maiuscola e di drammatico sconcerto per l’irruzione della guerra. 

Ecco la sua descrizione di Kiev nel periodo precedente alla guerra, quando la vita scorreva tranquilla e apparentemente sicura: “Come un alveare a più piani, fumigava e rumoreggiava e viveva, la Città. Bellissima nel gelo e nella nebbia sui monti, al disopra del Dnepr. Per giornate intere, a spirali si alzava il fumo da innumeri camini verso il cielo. Dalle strade si alzava il velo di vapore e la copiosa neve calpestata scricchiolava. Le case si alzavano a cinque, sei, sette piani. Di giorno le loro finestre erano nere, ma di notte ardevano in file sul cielo azzurro scuro. Catene di globi elettrici brillavano a perdita d’occhio come pietre preziose, appese in alto ai ganci dei lunghi pali grigi. Di giorno, con un monotono e piacevole ronzio, correvano i tram dai rigonfi sedili di colore giallo paglia. I grandi colli di pelliccia nero-argentea rendevano i volti femminili enigmatici e belli”.

Ed ecco che all’improvviso le avvisaglie della violenza: “Un giorno che la Città si svegliò risplendente come una perla nel turchese e il sole si rotolò fuori per illuminarla, un rombo terribile e sinistro l’attraversò. Era di timbro inaudito e così forte che parecchie finestre si aprirono da sé e tutti i vetri tremarono. I cittadini si svegliarono e per le strade cominciò lo scompiglio, che dilagò in un istante perché dalla città alta arrivò di corsa, urlando, della gente insanguinata e dilaniata. La morte non indugiò a venire. Essa vagò per le vie autunnali e poi per quelle invernali dell’Ucraina, insieme alla secca neve turbinante. Non la si vedeva, ma la precedeva la ben visibile ira sgraziata di un contadino che correva nella tormenta e nel freddo, con la paglia nei capelli arruffati e ululava”

L’ultima pagina del libro di Bulgakov è come un bilancio spirituale su ciò che la guerra lasciò dietro di sé:“Sbocciò l’ultima notte. Il greve azzurro, il sipario di Dio che avvolge il mondo, si coprì di stelle. Sembrava che a un’altezza incommensurabile dietro a quella cortina azzurra si celebrasse davanti alla Porta regia la funzione notturna che precede le grandi feste. Sopra il Dnepr dalla terra peccaminosa, insanguinata e nevosa s’innalzava nel cupo cielo nero la croce di mezzanotte dedicata al santo Vladimir (la grande croce che sovrasta Kiev n.d.r.). Tutto passerà. Le sofferenze, i tormenti, il sangue, la fame e la pestilenza. La spada sparirà, ma le stelle resteranno anche quando le ombre dei nostri corpi e delle nostre opere non saranno più sulla terra. Non c’è uomo che non lo sappia. Perché dunque non vogliamo rivolgere lo sguardo alle stelle? Perché?”

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