Bruna Bonacchi e la tragedia del piroscafo Andrea Sgarallino

Bruna Bonacchi e la tragedia del piroscafo Andrea Sgarallino

di David Colzi

settembre 2020

Probabilmente aveva ragione lo scrittore russo Tolstòj, quando affermava: “Se vuoi essere universale parla del tuo villaggio”, infatti la storia che stiamo per raccontare incrocia i destini di una signora di qua e di una grande tragedia della seconda guerra mondiale. 

Partiamo dalla grande Storia che ha come protagonista un piroscafo, l’Andrea Sgarallino: questo, come riportano le cronache, era stato costruito negli anni ’30 e battezzato col nome di un importante garibaldino della spedizione dei Mille. Inizialmente fu adibito al trasporto civile e poteva portare circa 300 passeggeri, grazie alla sua stazza di 731 tonnellate; la tratta a cui era stato assegnato era quella di collegamento fra Piombino e Portoferraio, quindi univa la terra ferma di Toscana all’isola d’Elba. Nel 1940, quando l’Italia fascista entrò in guerra al fianco della Germania, il piroscafo fu requisito dalla Regia Marina e armato con tanto di livrea mimetica, per essere riassegnato come vedetta adibita al controllo delle zone portuali. Dopo i fatti dell’8 settembre 1943, i tedeschi attaccarono le guarnigioni italiane di stanza all’isola d’Elba per costringere l’esercito alla resa, in quanto leale al Re e non a Mussolini, destituito da appena otto giorni. Così lo Sgarallino venne requisito dai Nazisti e riconvertito di nuovo al trasporto civile per il collegamento fra Piombino e Portoferraio, sebbene gli venne lasciata la livrea mimetica. Sul ponte però non sventolava più la bandiera italiana, ma quella con la svastica. Questi particolari gli saranno fatali. Il piroscafo ripartì così il 21 settembre con l’equipaggio ignaro della tragedia che lo attendeva di lì a breve.

Adesso torniamo dalle nostre parti per incontrare Bruna Bonacchi (1920 – 1989), che in quel lontano 1943 era una giovane ragazza di vent’anni, sposata da pochi mesi con un militare, Francesco Bertini (1913 – 1992) di Caserana, che prestava servizio come aiuto cuoco alla mensa ufficiali in una caserma dell’Isola d’Elba. Un giorno di fine settembre alcune ragazze coetanee residenti fra Quarrata e Agliana, vennero a trovare Bruna per informarla della loro intenzione di partire per andare a trovare i loro uomini, anch’essi militari all’isola d’Elba. La signora Bonacchi sulle prime non era molto convinta di affrontare un viaggio così lungo, ma poi decise di seguire le ragazze e così partirono tutte alla volta di Piombino. Arrivate al porto, iniziò l’imbarco sullo Sgarallino, ma quando toccò a Bruna salire a bordo venne fermata, perché non aveva i documenti in regola, o forse perché li aveva sbadatamente lasciati a casa. Fatto sta che le sue amiche salirono tutte, felici come non mai di andare a trovare i loro uomini, mentre lei venne lasciata a terra, delusa, a guardare il piroscafo che si allontanava. Erano le 8:30 del 22 settembre 1943 e quello fu l’ultimo viaggio dell’Andrea Sgarallino. La Storia ci racconta i fatti successivi di quella mattina: dopo circa un’ora, alle 9:49, quando la nave era quasi arrivata, trovandosi in località Nisportino (Rio nell’Elba), una terribile esplosione ne squarciò lo scafo, facendola colare a picco in pochi minuti fra le fiamme. Il piroscafo era stato silurato dal sommergibile britannicoHMS Uproar”, il cui capitano, avendo visto la livrea militare e la bandiera con la croce uncinata, aveva pensato a una nave da battaglia tedesca, quindi ordinò l’attacco immediato. Circa trecento persone annegarono quel mattino a poche centinaia di metri dal porto, molte delle quali risucchiate dal vortice creato dai due tronconi della carcassa che si inabissava. Solo in 4 sopravvissero, recuperati da alcuni pescherecci dopo ore in mare, in quanto si temeva che il sommergibile fosse ancora in zona. Le amiche di Bruna morirono tutte. 

Fortuna? Caso? Destino? Fate voi le vostre considerazioni. Una cosa è certa: quel mattino non si salvò solo lei, ma anche un signore di Pistoia che, avendo visto negato il permesso di salire a bordo alla nostra concittadina, decise pure lui di non imbarcarsi, sebbene sull’isola avesse un figlio militare. Pensò che era meglio tornare a casa dalla moglie e dagli altri figli che lo attendevano. Così Bruna e quell’uomo partirono insieme a braccetto, rallegrandosi quando all’orizzonte, videro stagliarsi il profilo di Pistoia; erano entrambi sani e salvi, anche se non se ne rendevano del tutto conto, perché ignari della tragedia scampata.

Sull’isola, nel frattempo, la situazione era tutt’altro che tranquilla. Il signor Bertini si era dato alla macchia, dopo che alla mensa aveva sentito confabulare degli ufficiali che prospettavano una situazione non rosea per le forze armate italiane, dopo i fatti dell’8 settembre. Così Francesco uscì dalla porta di servizio della cucina per non tornare più, trovando rifugio da una famiglia dell’Elba che, dopo avergli dato abiti civili, lo “arruolò” nella vendemmia. Scelta saggia quella del nostro concittadino, viste le rappresaglie che i soldati italiani subirono dal 1943 in poi, fra fucilazioni e deportazioni in Germania ai lavori forzati

Conclusa la guerra, Bruna e Francesco finalmente si riabbracciarono e poterono iniziare la loro vita insieme mettendo su famiglia in quel di Caserana, dopo aver intrecciato le loro vite con una delle più grandi tragedie avvenute sul mare italiano in tempo di guerra.

Per la realizzazione di questo articolo, si ringrazia Giosuè Palandri e Anna Maria Bertini, figlia di Francesco e Bruna.

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