Una nuova versione della rappresaglia di Castel dei Gironi

Una nuova versione della rappresaglia di Castel dei Gironi

di David Colzi e Luciano Tempestini

marzo 2021

La rappresaglia di Castel dei Gironi del 1944 ad opera dei Nazisti è un episodio avvenuto a Montemagno, le cui dinamiche sono già note alle cronache storiche. Noi ve lo vogliamo riproporre attraverso la testimonianza diretta di Luciano Gori, aiutato dalla moglie Margherita, entrambi originari di Montemagno. All’epoca dei fatti Luciano aveva 10 anni e il suo ricordo è molto interessante perché, rispetto alla versione nota, offre prospettive diverse su questo avvenimento. Ecco la sua cronistoria.

La parte su cui il nostro testimone concorda con la versione ufficiale è che il giorno 9 agosto del 1944, a seguito di scontri fra partigiani e Nazisti, un soldato tedesco rimase ucciso e per questo scattò una rappresaglia che portò all’incendio del borgo di case del Castel dei Gironi in località Montemagno, dove rimasero uccise due persone: Giordano Cappellini e Mario Innocenti. Le fonti dicono però che lo stesso giorno avvennero altri due episodi: l’uccisione di Gino Bracali ed il rastrellamento di cinque giovani del luogo, ma, secondo Luciano, questi non sono affatto collegati.

L’uccisione di Gino Bracali.

Questo omicidio avvenne qualche giorno prima del 9 agosto, quando una pattuglia tedesca fermò Gino Bracali nei pressi del cimitero di Montemagno, in un piccolo borgo denominato “La buca”. I militari intimarono a quel giovanotto di trent’anni, incapace di intendere e di volere, di seguirli, probabilmente per condurlo ai lavori forzati: «Di uomini non ce ne erano quasi più in giro» precisa Luciano, «perché tanti erano nascosti o a combattere sui monti, per questo i tedeschi catturavano quei pochi disgraziati che riuscivano a trovare». Inizialmente Bracali disse che sarebbe andato con loro solo se accompagnato da un’amica, poi, quando venne afferrato con forza, si ribellò iniziando a scalciare; a quel punto i tedeschi lo presero a bastonate e, quando era già in fin di vita, lo freddarono con un colpo di pistola alla testa. I nazisti ordinarono poi che il corpo martoriato venisse lasciato sul luogo dell’uccisione per tutta la notte e il giorno dopo, perché servisse da monito.

I cinque arrestati e Carlo Bernardoni.

Altro episodio che, secondo Luciano e Margherita, si colloca prima del 9 agosto, riguarda la cattura di cinque ragazzi condotti in prigionia alla fattoria di Santonuovo. I loro nomi sono noti: Aldo Baldi di Pistoia, Aldo Palandri di Prato, Albano Vallecchi, Icilio Pecorini e Angelo Burchietti di Montemagno. Questi pare fossero imboscati per sottrarsi alla leva militare che li avrebbe portati inevitabilmente al fronte. Così furono impiegati a Bottegone in lavori forzati, ma riuscirono a scappare proprio come fece Dante Maiani, la cui storia abbiamo raccontato nel numero di dicembre 2019, grazie alle memorie del figlio Mauro. Luciano ci ricorda inoltre che in prigione con questi giovanotti c’era anche Carlo Bernardoni, partigiano modenese, fucilato il 12 agosto presso la località “La Calla”, vicino Montemagno: «Gli spari furono uditi distintamente fin qui in paese» dice Margherita. Fra l’altro le cronache narrano che il corpo del giovane venne ritrovato in seguito, grazie ad un bigliettino anonimo fatto pervenire al parroco don Leoncini; ebbene la missiva venne consegnata proprio dal nostro Luciano che all’epoca serviva Messa. «Io Bernardoni lo vidi passare sulla camionetta mentre lo portavano alla cava» ricorda Luciano. «Povero ragazzo! Dopo averlo seppellito, due persone di Montemagno andarono in bicicletta a Montese, il suo paese in Emilia, per informare la famiglia; ci impiegarono due giorni».

Quella sera del 9 agosto.

Sul perché venne scelto la borgata dei Gironi per la rappresaglia, ci sono opinioni discordanti; alcuni residenti del luogo narrano che ai tedeschi arrivò una soffiata da un delatore fascista di Montemagno, che li informò della presenza ai Gironi di una formazione partigiana, notizia chiaramente falsa. A riguardo il compianto professor Giovanni Burchietti, che all’epoca apparteneva ad una cellula di Resistenza nascosta sulle colline di Quarrata, sosteneva di conoscere l’autore della soffiata, facendone nome e cognome.

Comunque sia andata, i soldati arrivarono quella sera a bordo di camionette e, una volta circondato il borgo, intimarono a donne e bambini di uscire dalle case che poi dettero alle fiamme. Dentro una di queste abitazioni vi erano rimasti Giordano Cappellini di Bottegone e Mario Innocenti di Montemagno. Erano nascosti in una soffitta e quando le fiamme li raggiunsero furono costretti a uscire. Cappellini salì sul tetto sventolando qualcosa di bianco, forse un cuscino o un lenzuolo, per far intendere ai tedeschi che voleva arrendersi; per tutta risposta i soldati lo trivellarono con una raffica di mitra. Si consegnò anche Innocenti, un uomo malato, che venne ucciso a bastonate. «Le fiamme illuminarono il cielo di notte e da casa mia sentivo le urla delle donne» ricorda un po’ emozionata la signora Margherita. Dopo la rappresaglia, viene riportato nei resoconti che il corpo di Cappellini fu lasciato a terra per giorni su ordine dei tedeschi e solo in seguito recuperato dalla madre, ma il signor Gori dice che appena i soldati se ne furono andati, la salma venne subito prelevata e portata al cimitero per prepararla alla sepoltura. «Lo ricordo bene» aggiunge Luciano. «Ho ancora davanti agli occhi il cadavere con tutto il sangue aggrumato sui vestiti. Ricordo benissimo anche che una donna lo mise in posizione seduta, mentre un’altra lo lavava per renderlo presentabile».

Secondo lei Cappellini e Innocenti erano partigiani? «Io, per come li ho conosciuti, dico di no» afferma con sicurezza Gori. «Qui a Montemagno i partigiani non ci stavano, perché era troppo pericoloso per loro rifugiarsi nei borghi abitati. Di tanto in tanto se ne vedeva qualcuno sceso dai monti, ma rimaneva solo il tempo di rifocillarsi velocemente e poi spariva nel bosco. Persino io una volta, tornando a casa, incontrai un giovanotto che portava in spalla un sacco pieno di armi e mi fermò per chiedermi un sorso d’acqua». Non c’erano nemmeno armi? «No. Magari in qualche casa c’era un vecchio fucile a bacchetta ma niente più». E allora? «Secondo me, come era accaduto a Gino Bracali, che conoscevo bene, i tedeschi si accanirono ancora una volta con chi riuscirono a beccare: i partigiani erano troppo prudenti e poi potevano contare su una fitta rete di informatori che li avvertiva in caso di retata»·

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